32° anniversario Mons Pietro Margini – Omelia don Andrea Pattuelli

32° anniversario della morte di Mons. Pietro Margini

Sant’Ilario d’Enza, 8 gennaio 2022

Un incontro vivo

 

Con il nostro battesimo abbiamo trovato un punto fermo, di luce, sul quale costruire. Anche l’edificio spirituale, ovvero il Corpo di Cristo, il quale veniva battezzato assieme al suo popolo lungo il fiume Giordano, si costruisce su di un punto fermo; da ciò “si apre il cielo”.

La forma corporea della Spirito Santo, una colomba, sottolinea la stabilitas del cuore di Gesù dopo la vita nascosta a Nazareth, e all’inizio del ministero pubblico.

Qual è?  La voce del Padre che gli dice: “Tu sei il Figlio mio, l’amato”.

Da qui, il senso che trova ancora oggi ogni vocazione, voce-vocazione.

È forse una voce che assegna un compito speciale?

O forse una voce che dice che diventerai qualcuno?

O non piuttosto una Voce che dice chi sei per lui?

Nella coppia, come nella consacrazione verginale a Dio per il regno dei cieli, diventiamo pronti a donare tutto noi stessi solo quando l’altro, amandoci, ci fa scoprire e ci conferma a noi stessi.

Anche Don Pietro Margini è stato sacerdote perché fortemente amato dal Signore; di questo amore, da cui si è trovato investito fin dalla giovinezza, amore del quale mamma Emilia, in qualche modo, è stata sempre memoria viva, si è servito per tutto l’arco del suo ministero nella Chiesa.

Non so se è capito anche a voi: diventare grandi è amare sempre più il padre e la madre… la fonte che ci ha generato e “fatto cristiani” come recita la preghiera del “Ti adoro”.

Tra pochi giorni ci sarà la chiusura dell’inchiesta diocesana su Don Pietro Margini; ciò affinché continuino gli approfondimenti presso la Congregazione delle Cause dei Santi a Roma.  Stiamo vivendo un pezzo di storia della Chiesa, che è sempre storia di santità; ed ora sarà affidato alla Sede Apostolica il compito di “soppesare”, per così dire, e vagliare come oro nel crogiuolo questo sacerdote, il valore della sua vita, le virtù eroiche che si sono rese riconoscibili all’esterno, perché possa essere indicato come speranza per le future generazioni.

Egli che parlava dei sacerdoti come gli “amici di Gesù”, amici per l’unzione ricevuta, come il dono per eccellenza di sé da fare al Signore, ha vissuto in prima persona questo dono: “Alza la tua voce con forza. […] Come un pastore egli fa pascolare il gregge”.

Alza la voce con la vita, con l’esempio della vita; le virtù eroiche non sono uno specchio per gloriarsi, sarebbero come sabbia, ma l’umile traccia che brillava dalla voce dell’esempio di Don Pietro; egli ogni giorno alzava con forza la sua voce, annuncio gioioso del Pastore buono che passa, proprio in questi luoghi nei quali oggi continuiamo a celebrare i misteri della Salvezza.

Ha vissuto fino in fondo il suo essere sacerdote e facendo risplendere questo dono a servizio dei fedeli. Forse il suo segreto dialogo con il Padre, continuo, ancorché ascoltasse decine e decine di persone, che “formavano lunghe file per la direzione spirituale e la confessione”, e in particolare la celebrazione eucaristica, svelavano per un istante di eternità la sua confidenza con Dio Padre, dal quale viene ogni paternità.

La sua è stata una missione pastorale diretta all’edificazione della comunità, persona a persona, per la quale si è consumato fino all’ultimo respiro.

Da sopra allora cerchiamo di prendere come esempio le virtù necessarie alla comunione: “[…] ci insegna a rinnegare l’em­pietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza”.

Riscattare le fonti della speranza

Si può essere euforici per non vedere o dover subire qualcosa, (speranza da rifugio) o per aver ottenuto un risultato soddisfacente (speranza da esaltazione).

La speranza è come una stella cadente difficile da vedere, “se non con gli occhi lucidi di lacrime”; vuol dire che per imparare a sperare occorre passare la disperazione, la notte… (cf. anche G. Leopardi, Zibaldone). Vuol dire anche non avere le risposte pronte, altrimenti sono domande “illegittime” …

La speranza cristiana rinasce continuamente dall’essere lontani e poter diventare vicini.

Troppe volte sentiamo l’afflizione come una colpa, nostra o di qualcuno, fino anche ad attribuirla a Dio; cerchiamo di estraniarci dagli altri poiché il loro peso ci opprime; vorremmo essere amabili ed avere buone relazioni, ma rifuggiamo, obiettiamo di non avere questo o quello.

Tutto è in relazione.

Sono persuaso che il tema della disperazione si intreccia con la povertà non evangelica, così come la speranza con la povertà evangelica, la quale è prima tra le Beatitudini. Un modo di dire è: “Abbiamo troppo; per questo non siamo mai contenti…” Dimenticando che dopo il Battesimo ognuno di noi è entrato nel Corpo di Cristo, che è la Chiesa, e che il valore della nostra persona è costituito dal “chi siamo” assieme al Suo Corpo.

L’unità della famiglia di Dio è sempre in divenire e comporta l’allargamento del cuore, dei pensieri e delle consuetudini: affetto, sapienza e carità. L’affetto ricorda di sentire l’altro come parte di me, riflette quel coniugalis adfectus degli sposi; la sapienza ricorda di non sapere di più di quanto ci basti: la carità ci conduce ad essere pratici.

Per dire “spero in Dio” devo poter dire “spero in noi”.

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