XXXV anniversario di nascita al cielo di Mons. Pietro Margini
Omelia dell’Arcivescovo Monsignor Giacomo Morandi
Basilica della B.V.M. della Ghiara, Reggio Emilia
8 gennaio 2025
«In questo sta l’amore, non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10).
Con queste parole l’Evangelista Giovanni ci pone nel cuore della rivelazione cristiana, nella consapevolezza che l’uomo dopo il peccato non sa, non sa più che cosa vuol dire amare e lo impara stando alla scuola di Dio, alla scuola di Gesù. «In questo sta l’amore: Non siamo stati noi, ma Egli ha amato noi e poco più avanti afferma che la fede è credere all’amore di Dio. Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore di Dio, che Dio ha per noi».[1] Avere fede, dunque, significa avere la certezza, la consapevolezza profonda di essere amati da Dio. Noi a volte siamo un po’ più preoccupati di sapere e di discernere se amiamo Dio, ma questa è una conseguenza. È la conseguenza dell’essere amati da Dio, è la percezione profonda che siamo il termine dell’amore infinito di Dio. Gesù l’aveva detto a Nicodemo quella notte: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui abbia la vita»[2]. E possiamo dire che tutte le prove, le difficoltà che attraversiamo nel nostro cammino, nel nostro itinerario, cercano di incrinare, di scalfire, di corrodere questa consapevolezza, cioè di essere amati da Dio, di essere preziosi agli occhi di Dio. E, invece, tutta la storia della salvezza – e la Scrittura ce lo testimonia – non è che un’affermazione di un amore fedele e tenace del Signore che non «congeda» mai. Abbiamo ascoltato nel Vangelo gli apostoli. I discepoli si fanno interpreti di quello che noi chiameremmo il buonsenso. Dopo una giornata di predicazione e di impegno apostolico, «Congeda la folla», dicono i discepoli. Congeda la folla in modo tale che andando per le campagne e villaggi nei dintorni possano comprarsi il pane. Siete d’accordo che questo è un consiglio di buon senso? «Congeda»: non ci si può impegnare sempre e comunque nell’annuncio del Vangelo. Anzi, a volte noi facciamo leva sul tanto bene fatto per accumulare una sorta di bonus per evitare di continuare a farlo!
E ascoltiamo queste Parole del Signore nel giorno in cui, in modo particolare, ricordiamo la nascita al Cielo di Don Pietro, del Servo di Dio Mons. Pietro Margini. Un discepolo del Signore, che possiamo dire – è stato letteralmente consumato da questa passione, anche quando forse la sua salute poteva indurlo a congedare la folla, a prendere le distanze e, invece, è stato consumato dalla passione di far conoscere l’amore di Dio a tanti fratelli e sorelle che ha incontrato nel suo cammino sacerdotale.
Nella lettera pastorale di quest’anno, ho indicato tra le altre figure anche quella del nostro Servo di Dio Don Pietro come una figura di un dono profetico per la nostra Chiesa di Reggio e per la Chiesa in generale. Vorrei soltanto richiamare tre aspetti che, a mio modo di vedere, possono costituire il dono profetico che Don Pietro è stato per la nostra Chiesa, la nostra comunità cristiana nel suo ministero così generoso e infaticabile.
In questi giorni mi sono immerso nella lettura dei suoi scritti – veramente qualcosa di impressionante è quello che emerge con un’estrema chiarezza dalla sua predicazione: il primato di Dio, il primato di Dio! Come gli antichi profeti, Don Pietro ha indicato che per essere fecondi è necessario, è indispensabile fare spazio a Dio nella propria vita. In una vita di preghiera nella meditazione della Parola di. Dio, nella celebrazione dell’Eucaristia quotidiana, gli esercizi spirituali, l’accompagnamento spirituale. Si può dire una costante la priorità quella di porre Dio al centro della propria vita. Così scrive nel maggio del 1946: “Ieri, dicevamo, come la Grazia ci rende Figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo: ecco perché lo Spirito di Gesù è ancora lo Spirito che risiede nelle nostre anime e dirige la nostra vita soprannaturale. […] Incentrare la nostra vita di pietà nell’ascoltare in noi la voce dello Spirito Santo. […] Bisogna lasciarsi guidare in soprannaturalmente e basarci nel nostro lavoro esclusivamente sulla Grazia”[3]. Tante volte si è messa in evidenza una predicazione come quella di Don Pietro, che era esigente sul piano delle scelte, le scelte etiche e morali. Ma si fa torto a Don Pietro, se si pone l’accento su queste e non tanto piuttosto su questo primato della Grazia che fonda l’agire in modo conseguente, secondo quella Grazia che si è ricevuta: il primato della Grazia e dello Spirito Santo in modo tale da fare spazio proprio alle ispirazioni che vengono e sono suscitate dallo Spirito Santo. E la conseguenza – dice Don Pietro – è che la vita cristiana non è semplicemente un evitare il male, ma fare il bene che è in nostro potere. “Troppi cristiani – scrive – si accontentano nella loro vita di non fare. Invece non si può ridurre il cristianesimo ad una proibizione. Cattivi maestri di spiritualità sono coloro che non sanno ripetere che ‘Non fate’. Il cristianesimo è vita, è bellezza di vita. Il cristianesimo prende tutti i doni naturali che sono nell’uomo: li potenzia, li vivifica, li sublima”[4]. Mi ha colpito questa espressione: il cristianesimo è bellezza di vita, è affascinante. Il primato dell’azione di Dio nella vita dell’uomo, che si manifesta attraverso l’ascolto di quello Spirito Santo che tu puoi scorgere nella Parola annunciata, nella celebrazione dell’Eucarestia, nella meditazione personale, nell’accompagnamento, nell’ascolto del padre spirituale. In questo Don Pietro è stato veramente profetico: nel dirci che non c’è nessun apostolato che possa essere fecondo se non affonda le radici in questo primato dato a Dio, in questo primato dato all’azione di Dio nel nostro cuore, dato, in altre parole, alla Grazia di Dio.
Così come possiamo dire che Don Pietro è stato profetico nell’aver intuito che la comunità cristiana doveva sempre più assumere il volto di una famiglia, una famiglia di famiglie. “La parrocchia troppe volte è concepita prevalentemente sotto l’aspetto culturale – scrive – una specie di supermarket delle Comunioni. Si va in Parrocchia non per trovarvi una comunità, […] ma per un servizio religioso, così come si va in farmacia a prendere una medicina. […] La vera fisionomia della Parrocchia va configurata come la famiglia dei Figli di Dio”[5]. È questa immagine profondamente biblica della Parrocchia, della comunità cristiana, come famiglia di Dio, in cui la famiglia è un soggetto attivo di annuncio e di apostolato. Dobbiamo cogliere che queste riflessioni, calate nel suo tempo, acquistano la forza di una profezia. Egli aveva intuito che la vera battaglia, che di lì a poco ci sarebbe stata, sarebbe stata la battaglia per la custodia della famiglia, delle nostre famiglie non soltanto come destinatarie di un annuncio, ma come protagoniste di un annuncio: l’apostolato di coppie.
E in questo senso il suo ministero è stato un ministero che ha aperto una strada, che ha indicato un percorso che stava davanti e che coinvolgeva la vita di tutti i battezzati, sapendo che l’amicizia, quella che si fonda, non su una affinità umana elettiva, ma quella amicizia che scaturisce dalla fede e dalla condivisione della medesima fede è la via regale dell’annuncio e dell’evangelizzazione. L’amicizia, quella amicizia che nasce dal nostro appartenere esclusivamente a quel Signore che noi non abbiamo scelto per primi, ma certamente Lui ha scelto noi.
Da ultimo, Don Pietro ha insistito sulla corresponsabilità di tutti i battezzati alla vita della Chiesa. Oggi stavo per dire “è di moda”, ma non è così, parlare della sinodalità. Parlare della corresponsabilità di tutti i laici nella vita della Chiesa è diventato un tema all’ordine del giorno, che continuamente e giustamente ricordiamo. Ma Don Pietro scriveva: “La Parrocchia non è solo il Parroco. La Parrocchia è formata da tutti i battezzati che sentono la loro chiamata. I laici sono Chiesa a tutti i titoli. Tutti i cristiani sono uguali: è un cristiano il Parroco, sono cristiani gli altri”[6]. Parole che indicano come non c’è una delega all’annuncio, all’evangelizzazione. Da qui la promozione di tanti ministeri, in modo particolare del Diaconato della Comunità di Sant’Ilario. Io non ho mai incontrato Don Pietro, ma quando da seminarista – quindi non 2 o 3 anni fa – venivo a Reggio Emilia sentivo parlare di questa comunità di Sant’Ilario con una decina di diaconi. E allora pensavo come proprio Don Pietro ha aperto, anche in questo, una strada: quella corresponsabilità e la capacità di prendersi cura come famiglie diaconali dell’intera comunità cristiana. E oggi noi viviamo in questa corresponsabilità che anche Don Pietro ha condiviso e in qualche modo ha profeticamente indicato come pastore di Sant’Ilario.
Sarebbero tante le indicazioni spirituali che vengono dalla vita di questo uomo che fin da sempre ha fatto sì che il suo ministero fosse un ministero che traeva forza dalla sua debolezza, dalle sue prove fisiche, dalle sue malattie, ma che mai si è lasciato scoraggiare e mai ha congedato quella folla con la quale sapeva relazionarsi con quella capacità anche di calare la Parola del Signore nella vita delle singole persone nella direzione spirituale, nell’accompagnamento di questi fratelli e sorelle.
Carissimi fratelli e sorelle della Familiaris Consortio, grazie della vostra presenza nella nostra Chiesa. Continuate sulla via indicata da Don Pietro, dalle sue intuizioni spirituali, dalla sua paternità. Con voi ringrazio il Signore per il dono che siete per la nostra Chiesa, per le nostre comunità, per le nostre famiglie. Prego per voi perché siate fedeli a queste intuizioni, specialmente perché possiate rimanere sempre uniti come Don Pietro ha desiderato e ha pregato anche soprattutto nel suo testamento.
[1] 1 Gv 4,16.
[2] Gv 3, 16-18.
[3] Dalla meditazione nel mese di maggio 1946 nella chiesa San Giuseppe Calasanzio a Correggio in Ludmila e Stanislaw Grygiel – Rita e Vittorio Moggi, La mia regola è il cielo. Coelum regula mea. Storia di preghiera, di sofferenza e di amicizia. Vita e opere di don Pietro Margini “povero parroco di campagna”, Roma, 2014. Pag. 89.
[4] Dalla meditazione nel mese di maggio 1947 nella chiesa San Giuseppe Calasanzio a Correggio in Grygiel – Moggi, La mia regola è il cielo. Coelum regula mea. Storia di preghiera, di sofferenza e di amicizia. Vita e opere di don Pietro Margini “povero parroco di campagna”, Roma, 2014. Pag. 91.
[5] Articolo del Ventilabro del 22 aprile 1973, intitolato “Parrocchia realtà vitale” in Grygiel-Moggi, La mia regola è il cielo. Coelum regula mea. Storia di preghiera, di sofferenza e di amicizia. Vita e opere di don Pietro Margini “povero parroco di campagna”, Roma, 2014. Pag. 259.
[6] Grygiel- Moggi, La mia regola è il cielo. Coelum regula mea. Storia di preghiera, di sofferenza e di amicizia. Vita e opere di don Pietro Margini “povero parroco di campagna”, Roma, 2014. Pag. 261.