8 Gennaio 2016 omelia don Luca Ferrari

“Qui, nel confessionale, è stato generato un popolo credente”

Il testo dell’omelia di don Luca Ferrari in occasione della messa di anniversario della nascita al cielo di don Pietro Margini, l’8 gennaio 2016

 

Sant’Ilario d’Enza

1Gv 4,7-10 
Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui.
In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.

Immerso nella contemplazione dell’amore di Dio, l’apostolo Giovanni è stato introdotto dalla amicizia con Gesù nel mistero del cuore dell’uomo e della storia.

L’incontro di Giovanni con Gesù sembra fortuito: a giudicare dall’esterno può apparire strano che Giovanni attribuisca tanta importanza a quell’uomo, incontrato in circostanze così singolari, al punto da arrivare a definire la sua vita e quella di ogni uomo a partire da Gesù. Giovanni era discepolo del Battista proprio mentre Gesù viene a farsi battezzare da lui. Su indicazione del suo maestro, Giovanni lo segue e si fa invitare a casa sua dove rimane fino a sera. Nella intimità domestica certamente Gesù ha avuto modo di conoscere il cuore di quegli ospiti. I figli di Zebedeo, “Boanèrghes” – figli del tuono, come li chiamerà Gesù, si sono sentiti conosciuti nell’amore, al punto da lasciarsi poi conquistare ed educare, correggere e rialzare dalle sue parole. Anzitutto ha creato in loro una piena disponibilità a lasciarsi condurre da lui, se lo avesse voluto.

Ricorda l’evangelista Marco che dopo quell’incontro, Giovanni è ritornato al suo lavoro assieme al fratello. È qui che Gesù lo incontra di nuovo e questa volta prende l’iniziativa: gli fa un invito che davvero cambierà la sua vita. “Seguimi”, ha detto. Giacomo e Giovanni lasciato il loro padre e i garzoni sulla barca, lo hanno seguito. Ecco perché l’apostolo amato da Gesù può dire di non essere stato lui ad amare per primo. Cercava Dio, lo serviva con un cuore passionale, giovane e amabile, aveva seguito il Battista, era stato a casa di Gesù. Ma è stato cercato e chiamato dal Figlio di Dio a seguirlo. Prediletti da un cuore grande e libero, i discepoli hanno scoperto di essere preziosi agli occhi di Dio. Tutti e ciascuno con la sua storia, con i propri doni e limiti.

Da quel momento inizia un’avventura travolgente per Giovanni e i suoi amici. Gesù non si scandalizza di loro, non li condanna per le loro debolezze e vanità, li scruta in modo virile con amore, li ammonisce e li perdona. Il discepolo è sicuro che l’incontro con Gesù, la sua stessa persona, possa essere anche per noi e per tutti la strada, la verità, la vita stessa. Giovanni ne è convinto: ciò che è avvenuto nella sua vita diventa speranza per tutti.

Oggi la nostra ricerca di un senso alla vita e alla morte, alle gioie e alle fatiche, ai dolori e alla consolazione, non è sostenuta una tradizione condivisa da tutti. È la storia personale a offrire i segni di una iniziativa di Dio che ci vuole indicare la strada della vita, la strada della gioia e della pace nel suo cuore, nella sua casa. C’è chi la trova, chi l’abbandona dopo averla conosciuta, chi non spera di trovarla e chi non si preoccupa di cercarla. È strano, ma apparentemente è così.

La chiamata degli apostoli è indubbiamente un’esperienza unica: a loro Gesù affida infatti il compito di raccontare ciò che hanno visto e udito. Li ha inviati perché la loro voce, la loro testimonianza potesse giungere in ogni angolo della terra, in ogni istante della storia, agli uomini di ogni condizione, a noi.

L’ospitalità della casa di Gesù e l’invito a seguirlo riguarda anche noi. Anche per noi è stato così. Se possiamo riconoscere l’iniziativa di Dio verso di noi, la sua mano che scende dal cielo per chiamarci a sé, è perché abbiamo fatto questa stessa esperienza.

Mi interroga molto la presenza, dopo ormai molti anni dalla sua morte, di tanti che vengono a pregare nella memoria di don Pietro nel luogo dove è nato e cresciuto, dove è tornato come parroco, dove il suo corpo riposa in attesa della risurrezione. Perché lo ricordiamo? È soltanto per gli ideali, i valori che ha indicato con la parola e con la vita? Credo di no. È perché attraverso di lui il Signore ci ha chiamati a fare esperienza di una comunione di vita che continua, anche in un mondo per molti aspetti così diverso da come l’aveva conosciuto don Pietro, e tuttavia così simile a come l’aveva intuito tanti anni fa.

Molti di noi non erano ancora nati quando è salito al cielo. Ma la memoria di don Pietro è viva: soprattutto i più giovani testimoniano che il Signore ha accolto la sua preghiera ed ha esaudito le sue promesse. “Voglio passare il mio paradiso a fare del bene con voi”. Non sono anzitutto gli edifici da lui voluti, sostenuti o incoraggiati. Le persone, la parrocchia così ricca di fede e iniziative, le comunità cristiane, le tante vocazioni fiorite in un tempo avaro persino di matrimoni cristiani, le famiglie numerose e generose, i sacerdoti, le vergini sono il luogo privilegiato dove riconoscere la benedizione del Signore su don Pietro e il suo ministero sacerdotale.

Chi ha conosciuto don Pietro ricorda certamente la dedizione totale al Signore per noi nel ministero pastorale e nel confessionale. Nell’uno e nell’altro, come espressione di due diversi registri di un unico amore paterno e materno, ha mostrato il cuore misericordioso del Buon Pastore. Come parroco ha indicato quotidianamente il Vangelo di salvezza come strada esigente di santità. Come confessore infaticabile non si è mai sottratto alle grandi e piccole infedeltà che l’interminabile fila di penitenti gli ha confidato.

Il confessore è come nell’atrio di Pilato”: con questa espressione, che mi ha colpito moltissimo, desiderava introdurmi nel ministero ormai prossimo del confessionale. Ho ripensato spesso a queste parole. La fatica del confessore è quella di ascoltare le offese ad una persona tanto amata, spesso per tutto il giorno, per tanti giorni all’anno. Ma è proprio per questo che la Confessione è preziosa: è esperienza di purificazione, di ritorno, di perdono. Se Gesù perdona chi lo offende, il confessore trasmette questa certa fiducia. Gesù non ci è nemico anche quando noi lo abbiamo offeso. Se gli chiediamo perdono, sperimentiamo cosa significa davvero l’amore di Dio. “Val la pena di soffrire per sapere come tu sai consolare”. Questa parola di don Pietro descrive bene il modo con cui si è posto tra noi davanti a Dio e in Dio davanti a noi.

Qui, in particolare nel confessionale, è stato generato un popolo credente. Così sono cresciute le vocazioni, le famiglie e le comunità. Pensiamo alla gioia di confidare che lo sposo e la sposa si confessa bene, i figli e i genitori si confessano frequentemente, gli amici sono costantemente rigenerati dalla Riconciliazione. È una sicurezza grande sapere che ognuno cammina nell’esperienza personale e comunitaria del perdono. La Confessione è garanzia per la famiglia e la comunità. Quando qualcuno si chiude alla Misericordia diventa impossibile la comunione, che è sempre reciproca. Allora si sta davanti alla persona amata come Gesù, nella mendicanza, nella speranza che il cuore del fratello si apra nell’umiltà. Le famiglie, le comunità e i sacerdoti nati dal cuore di don Pietro sono forti e uniti quando ciascuno vive questa esperienza di riconciliazione. La preghiera è il respiro dell’anima, la Confessione è l’esperienza della continua rigenerazione di ogni rapporto.

Ecco perché oggi esprimo la mia profonda e personale gratitudine: don Pietro mi ha introdotto nell’esperienza della Riconciliazione. Da quando ho superato l’iniziale timore – frequentavo allora le scuole medie – la confessione per me è diventata una gioia da ricercare volentieri e frequentemente, fino ad oggi. Ed è forse per questo che la Chiesa mi ha chiesto di aiutare a riscoprire il tesoro della Confessione ed è fiorita un’esperienza che ci spinge incessantemente a proporre, a dilatare e celebrare la gioia della riconciliazione: riconosco in don Pietro la fonte di questa esperienza personale. Da quando ho scoperto l’esperienza della misericordia di Dio e dei fratelli, non ho più avuto paura di accogliere tutto ciò che il Signore e la Chiesa mi hanno proposto. Il sacerdozio è chiamata sublime ad essere vicino al cuore di Dio e ai fratelli in modo straordinario, condividendo tutte le gioie e le sofferenze che la vita riserva. È un dono e un mistero, un privilegio e una posizione di servizio totale. So che posso sempre contare sul perdono.

Maria Santissima, che don Pietro ha molto amato e ci ha insegnato ad amare in una grande devozione, è madre e maestra di questa fiducia. “Ha guardato l’umiltà della sua serva, d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata”. Si, la Beata Vergine Maria madre di Dio e madre nostra, madre dei sacerdoti e della comunità, si affida con gioia alla volontà di Dio, sapendo che è proprio nella nostra debolezza che risplende la luce della sua gloria. La gloria di Dio è l’uomo vivente in cui si riversa la sua misericordia.

 

(in allegato la versione stampabile in pdf)

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