LA FELICITÁ NON È SOLO UNA SPERANZA // “Grazie mille!”: Il quarto incontro del gruppo “25-35” a Roma.
La fede tra arte ed esperienza, di Claudio Cospito
Eppure ho questo vuoto tra lo stomaco e la gola/
voragine incolmabile, tensione evolutiva/
nessuno si disseta ingoiando la saliva
(Tensione evolutiva, Jovanotti)
Le voci che provengono dall’occidente ci raccontano di un mondo secolarizzato, in cui i religiosi sono percepiti come alfieri dell’inutilità, condannati a vivere una vita di preghiere e privazioni, perché incapaci di stare al passo con i dogmi moderni della produttività e dell’auto-soddisfazione ad ogni costo. Ma è veramente così? L’incontro avvenuto in un fine settimana di metà febbraio nel Monastero di San Bonaventura, sembrerebbe dire tutt’altro.
Non capita spesso di raggiungere il Palatino, uno dei colli più antichi di Roma, percorrendo in macchina la Via Sacra, a due passi dai Fori Imperiali, per andare a conoscere un frate francescano, che espone le sue opere alla Biennale di Venezia ed in altre finestre culturali. Se questa esperienza, poi, avviene in una bella giornata di sole, c’è anche l’opportunità di sfruttare la Golden Hour per immortalare con una foto uno dei panorami più suggestivi della Città Eterna.
Quando in una calda serata di fine agosto a Siena ci siamo chiesti che direzione dare al nostro percorso, una delle domande più sentite riguardava proprio le modalità con cui vivere e trasmettere la fede cristiana, negli ambienti che viviamo tutti i giorni e dove, almeno apparentemente, sembra non esserci più spazio per il trascendente. Siamo stati scelti per vivere nel terzo millennio: come potere abitare i luoghi della contemporaneità, sfuggendo alla tentazione di contrapporci a questa o di fuggirla?
L’arte, in tutte le sue manifestazioni, ha a che fare con l’umanità e con i suoi desideri. Se anche riusciamo a soddisfare tutti i nostri bisogni materiali, percepiamo ancora una condizione di insoddisfazione e di irresolutezza e avvertiamo che il nostro cuore desidera qualcosa di più. L’arte, come la musica e la poesia, diventano dunque un linguaggio, una forma di comunicazione, che l’uomo usa per uscire dalla materialità, andare oltre se stesso e proiettarsi verso l’infinito.
La figura di frate Sidival, francescano che attraverso un lavoro di trame recupera e riscatta tessuti e materiali altrimenti abbandonati, ci è sembrata potesse corrispondere a questi interrogativi e offrire uno spaccato sulla possibilità di vivere e testimoniare la fede in un contesto abbastanza insolito, ma proprio per questo calzante, come quello artistico. Se da profani chiudiamo gli occhi e proviamo a rappresentarci il mondo dell’arte contemporanea, è facile immaginare un ambiente sensibile, a volte eccentrico, in cui, tuttavia, lo spazio per una riflessione religiosa sembra essere ridotto.
Queste impressioni sono state facilmente smentite dall’introduzione con cui frate Sidival ci ha raccontato l’origine della sua espressione creativa. L’arte, in tutte le sue manifestazioni, ha a che fare con l’umanità e con i suoi desideri. Se anche riusciamo a soddisfare tutti i nostri bisogni materiali, percepiamo ancora una condizione di insoddisfazione e di irresolutezza e avvertiamo che il nostro cuore desidera qualcosa di più. L’arte, come la musica e la poesia, diventano dunque un linguaggio, una forma di comunicazione, che l’uomo usa per uscire dalla materialità, andare oltre se stesso e proiettarsi verso l’infinito.
Ma l’arte è anche testimonianza di un vissuto, di una esperienza. Un’opera acquista valore per quello che è e non per l’interpretazione che ne vuole dare l’artista. In questo senso, un telaio che quattro secoli fa non aveva alcun significato particolare, utile soltanto a sorreggere e servire un quadro, oggi, nel XXI secolo, riscatta il suo valore e impreziosito dal passare del tempo e dalla rielaborazione di Frate Sidival, diventa un’opera in grado di parlare al pubblico. Provocato dai nostri interventi, questa riflessione, nata originariamente su un terreno “artistico”, diventa anche un pretesto per confrontarci sulla fede e sulla Chiesa, alla ricerca non di risposte ma delle domande da porsi per poter crescere. Se è vero che per poter comunicare qualcosa occorre viverla, la prima domanda da porsi non è “come comunicare il vangelo oggi”, ma piuttosto “come è possibile oggi vivere la fede”. Essere contemporanei significa mantenere la vista verso l’orizzonte senza per questo dimenticare di vivere nel mondo in cui siamo.
È bello vedere come in ogni occasione vi siano sempre più persone che si interessano e partecipano al nostro percorso. Non manca incontro che non veda la partecipazione di new entry, che ci incoraggiano a vivere quest’esperienza con entusiasmo e con cui speriamo di crescere in un clima di comunione e di confronto.
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